COSA SONO I FUOCHI FATUI ?

Se ti dovesse capitare di camminare in un cimitero di notte (non ti giudichiamo), potresti notare delle fiamme blu spuntare dal terreno. Sono i fuochi fatui, un fenomeno che ha poco di esoterico ma tanto di chimico.

Non è raro sentirne parlare quando vengono raccontate storie fantastiche e da brivido, e chi dice di averne incontrato uno è ancora segnato dall’esperienza, vengono descritti a luce fredda, senza fumo, nè bruciature alle cose che attraversano.

 

Solo la morte m’ha portato in collina
un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria
per bivacchi di fuochi che dicono fatui
che non lasciano cenere, non sciolgon la brina.
Solo la morte m’ha portato in collina.

De André nella prima strofa de “Un Chimico”, da buon narratore della realtà ci fornisce tutte le informazioni per modellizzare questo un fenomeno.

 

 

Cosa sono ?

I fuochi fatui sono fiammelle fugaci prodotte dai gas emessi da materie organiche durante la loro decomposizione. Queste emanazioni sono composte da idrogeno e fosforo, che si infiammano spontaneamente non appena entrano in contatto con l’ossigeno dell’aria.

Un tempo quando i corpi non venivano sigillati nelle bare di zinco, era possibile osservare questo fenomeno nei cimiteri. Si verifica però anche nelle paludi e negli stagni.

 

 

 

IL PRIMO TENTATIVO DI SPIEGARE SCIENTIFICAMENTE IL FENOMENO

 

ll primo tentativo di spiegare scientificamente le cause dei fuochi fatui è da attribuire al fisico italiano Alessandro Volta, il quale, nel 1776, scoprì il metano. Egli propose che alcuni fenomeni elettrici naturali, come i fulmini, avrebbero potuto interagire con gas prodotti da ambienti paludosi, producendo il noto fuoco fatuo.

Molti scienziati sposarono la tesi di Volta, che però fu presto messa in discussione dato che le testimonianze non accennavano a condizioni meteorologiche favorevoli ai fulmini ed inoltre riportavano assenza di calore. Infine sembrava che il fuoco fatuo retrocedesse quando avvicinato da qualcuno.

Tuttavia, l’apparente ritiro del fuoco fatuo poteva essere facilmente spiegato con lo spostamento dell’aria generato da oggetti in movimento in prossimità del fenomeno e la conseguente dispersione dei gas. La tesi fu dimostrata con una serie di esperimenti prodotti nel 1832 da Louis Blesson.

 

Sia che siamo in un cimitero, in una palude o in una foresta giapponese i fenomeni di putrefazione la fanno da padrone.

Sebbene a questo punto seguendo la via del macabro sarebbe opportuno fare una giusta parentesi di quanto sia essenziale la morte se si vuole definire un concetto di vita, sia dal punto di vista filosofico che biologico, sorvoleremo questo punto per catapultarci nella comprensione del processo !

 

 

Putrefazione

 

La decomposizione dei materiali biologici non viventi può seguire due decorsi completamente diversi a seconda che ci si trovi in condizioni di presenza o di assenza di ossigeno.
Solo in quest’ultimo caso di può effettivamente parlare di putrefazione.

In presenza di ossigeno prevalgono nettamente le trasformazioni di tipo ossidativo: l’esito finale o comunque avanzato del processo vede un incremento nel numero di ossidazione degli atomi che costituivano le molecole.

 

La decomposizione aerobica è probabilmente quella che predispone meglio le molecole di origine biologica a tornare in circolo, ovvero ad essere riassimilate da nuovi esseri viventi autotrofi, in primo luogo dalle piante, chiudendo il cerchio del recupero della materia.

Invece le molecole che si formano al termine di un processo putrefattivo, che si realizza cioè a carico dei materiali biologici in assenza o quasi di ossigeno, invece, sono di tipo totalmente diverso. Esse si originano attraverso reazioni prevalentemente abiotiche, ma non mancano anche in questo caso organismi decompositori definiti “anaerobi” in grado di effettuare trasformazioni biologiche anche di condizioni di carenza o di totale mancanza di ossigeno.

 

 

All’opposto del caso della decomposizione aerobica, nella putrefazione anaerobica gli atomi che facevano parte delle molecole di origine biologica, tendono alla fine del processo a ridurre il loro stato di ossidazione.

Se consideriamo i principali elementi che costituiscono i tessuti viventi (carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, zolfo, fosforo) il punto di arrivo della trasformazione putrefattiva di ciascuno di questi è la sua forma completamente idrogenata, dove cioè l’elemento si trova in forma isolata e lega su di sé con legami covalenti esclusivamente atomi di idrogeno.

 

Nello specifico avremo: CH4, H2, H2O, NH3, H2S, PH3, dove in ogni caso è rappresentato in minimo numero di ossidazione raggiungibile per ciascuno degli elementi coinvolti.

Riprendendo il breve elenco di prima abbiamo l’idrogeno (H2), il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3), l’idrogeno solforato detto anche acido solfidrico (H2S) e la fosfina detta anche fosfano (PH3).

 

Tutte le sostanze citate sono basso bollenti, quindi a temperatura ambiente si presentano in forma di vapore o di gas.

Volendo prendere in esame l’origine di queste molecole, è chiaro che metano ed idrogeno possono derivare da una molteplicità, praticamente da tutte le sostanze organiche inizialmente presenti nel corpo in disfacimento. Per l’azoto le fonti iniziano a restringersi e sono in primo luogo le proteine e le basi azotate degli acidi nucleici.

 

 

Per lo zolfo l’origine è essenzialmente amminoacidica mentre il fosforo infine deriva dagli acidi nucleici (DNA e RNA) e dalle molecole trasportatrici di energia chimica (ATP, ADP).

Per quanto detto fino ad ora potremmo effettivamente iniziare a modellizzare il fenomeno pensando ad una sorta di combustione, sebbene infatti abbiamo escluso fenomeni elettrici come innescanti della fiamma non abbiamo ancora parlato dell’autocombustione. che non è altro che un processo di combustione dovuto all’autoaccensione di gas infiammabili.

 

Gas infiammabili come visto ne abbiamo in abbondanza: metano, idrogeno, fosfina… Ma come funziona l’autoaccensione?

 

Autocombustione

 

La temperatura di autoaccensione è la temperatura più bassa alla quale una miscela combustibile – comburente deve essere portata perché sia accenda spontaneamente. Al di sotto di questa temperatura, per provocare l’accensione della miscela, si deve usare una sorgente esterna.

La temperatura di autoaccensione può essere definita solo tenendo conto del sistema in cui la determinazione viene effettuata. Per questa ragione, le temperature di autoaccensione non possono essere considerate come valori fondamentali.

 

In media le temperature di autoaccensione si aggirano intorno a valori pari a centinaia di gradi centigradi ma può essere influenzata da diversi fattori. Sembrerebbe infatti che diminuisca al crescere del volume di reazione e al diminuire del peso molecolare delle sostanze.

Purtroppo nelle migliori condizioni possibili, non riusciremmo però ad ottenere temperature di autoaccensione paragonabili alla temperatura ambiente. Dobbiamo eliminare la nostra ipotesi di combustione.

 

Che i processi di combustione sarebbero dovuti essere ignorati, De André, te lo aveva ben detto, ma tu sei il solito caprone è per questo hai voluto sentirti raccontare tutta questa storiella.

“…bivacchi di fuochi che dicono fatui che non lasciano cenere, non sciolgon la brina…”

 

 

Un processo di combustione infatti per sua natura permette il rilascio di una quantità più o meno grande di calore, ma se i bivacchi di fuochi non sciolgon la brina vuol dire proprio che il calore è assente.

So già il cricetino nella tua mente cosa sta formulando: “e se il calore fosse presente e non fosse sufficiente per scogliere la brina?”

Ora ti tocca sorbire i calcoli. Come ben sai l’energia necessaria per portare a fusione una quantità di materia è detto calore latente di fusione e per l’acqua questa quantità vale λ =335 kJ/Kg.  Mentre il calore necessario per permettere la transizione di fase sarà:

Q =  λ*m

Con m la massa della sostanza da voler fondere.

Ipotizzando un valore pari a 0,05 g come massa di una goccia di brina, il calcolo è presto fatto. Ed il calore necessario a farla fondere sarà: 16.5 joule.

La combustione di un’unica molecola di metano

CH4 + 2 O2 = CO2 + 2 H2O + Q

Q= 1,47721e-16 joule

 

Servirebbero quindi una quantità pari a 100000000000000000 molecole di metano per permettere lo scioglimento di una singola goccia di brina. Potrebbe sembrare un numero immensamente grande, ma non lo è considerando che il quantitativo di molecole indicate non è nemmeno una mole di metano e, considerando tutto il carbonio presente nel corpo se ne potrebbe liberare molto di più!

Quindi se non c’è abbastanza calore nemmeno per sciogliere una singola goccia di brina non ci resta che concludere che le fiamme dei fuochi fatui siano “fiamme fredde”.

L’unica teoria che ci rimane da seguire è che i processi che danno vita ai fuochi fatui non siano tanto del tipo combustione ma invece siano non altro che fenomeni di chemiluminescenza.

 

 

Chemiluminescenza

 

La chemiluminescenza è la produzione di luce a partire da una reazione chimica. Due specie chimiche reagiscono per formare un intermedio eccitato (ad alta energia), che rilascia parte della sua energia sotto forma di fotoni. È lo stesso tipo di reazione che permette alle lucciole di brillare o a particolari braccialetti di illuminarsi durante le feste adolescenziali.

La teoria della chemiluminescenza è stata effettivamente verificata presso il dipartimento di chimica organica dell’università di Pavia da Luigi Garlaschelli Paolo Boschetti. Si è visto infatti come la fosfina in condizioni particolari riesca ad emettere luce.

 

Fonte: fisicisenzapalestra

 

 

È possibile vedere un fuoco fatuo?

 

La domanda di oggi è: nonostante si tratti di un fenomeno legato al mondo della leggenda, è possibile vedere per davvero un fuoco fatuo? O magari si tratta di un semplice disturbo visivo, come per esempio le mosche volanti ? Ebbene, la risposta, così come il fenomeno, è avvolta da mistero, ma per alcuni sembrerebbe essere sì.

 

Per alcuni studiosi, infatti, i fuochi fatui, nonostante la loro apparente connessione con il mistero e le innumerevoli leggende delle quali sin dall’antichità sono stati protagonisti, sarebbero un fenomeno scientifico facilmente esplicabile: queste inquietanti fiammelle che fluttuano improvvisamente davanti ai nostri occhi altro non sarebbero altro che il prodotto della combustione di metano e fosfano, due gas dovuti alla decomposizione di resti organici.

Questo spiegherebbe anche perché non sia raro sentir raccontare di apparizioni in paludi e cimiteri, luoghi ricchi di questi gas nell’aria. A sostegno di questa teoria, i fuochi fatui sono stati anche ricreati in laboratorio dal Professor Luigi Garlaschelli, membro del CICAP, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale.

 

Altre correnti hanno cercato di spiegare il fenomeno con movimenti tettonici che smuoverebbero gas presenti sotto la superficie terrestre.

Sembrerebbe dunque che la lunga storia nella leggenda dei fuochi fatui sia al suo termine per mano della scienza: quel che possiamo affermare noi, che ci occupiamo di disturbi oculari, è che non si tratta di una patologia. Insomma, se avete visto un fuoco fatuo, era lì per davvero.

 

Fonte: visionfuture

 

 

A cosa vengono associati questi fuochi fatui nel mondo ?

 

Nell’Europa continentale, le luci vengono associate allo spirito dei defunti, alle fate o ad altri esseri soprannaturali che cercano di far perdere il sentiero agli ignari viaggiatori.

Altre volte, si ritiene che le luci notturne siano gli spiriti dei bambini non battezzati o nati morti, i quali, non potendo accedere né al paradiso, né all’inferno, volano sospesi nel limbo.

 

Storie simili si narrano in nord Europa:

In Svezia, ad esempio, la leggenda vuole che il fuoco fatuo sia l’anima di una persona non battezzate che attira i viaggiatori verso l’acqua, nella speranza di riceve il battesimo.

In Danimarca e Finlandia, invece, il fuoco fatuo era associato alla presenza di un qualche tesoro sepolto nelle profondità del terreno o di una palude.

 

 

Anche l’Asia conosce numerose leggende associate a questi enigmatici fuochi notturni:

Nel folklore giapponese sono conosciuti come Hitodama, letteralmente “sfera di spirito”.
Sono le anime delle persone morte da poco e appaiono come piccole sfere luminose di colore blu pallido o verdastro con una piccola coda, generalmente nei cimiteri e soprattutto in estate.

Sarebbe talvolta possibile osservarle accanto a persone gravemente malate come manifestazione dell’anima che lascia gradualmente il corpo.

Altri tipi di fuochi fatui presenti nella tradizione giapponese sono gli onibi (fuochi demoniaci), originari della tradizione cinese dove sono noti come guǐhuǒ, che accompagnano le manifestazioni di esseri spirituali di origine non umana, accusati di attirare i viandanti lontano dal sentiero per farli perdere nel bosco.

 

 

Fonte: ilparanormale

 

 

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